domenica, marzo 22, 2009

Tra 11/9 e Ruanda. L’incidente dei processi che non s’hanno da fare

di Pino Cabras - Megachip

Erano due donne coraggiose. Si trovavano entrambe coinvolte nel tentativo di far partire dei processi su due distinte vicende di stragi, due casi terribili e pieni di implicazioni politiche, molto scomode per certi poteri, ossia le stragi dell’11 settembre 2001 e le stragi in Africa centrale. Non hanno fatto in tempo a vedere un’ulteriore fase processuale con tanto di atti di citazione, deposizioni sotto giuramento, procedure rivelatrici. Non potranno vedere tutto questo perché sono morte lo stesso giorno, il 12 febbraio 2009, nello stesso incidente aereo, quello del volo 3407 Continental Connection, precipitato su un sobborgo di Buffalo, NY, U.S.A.

Arriveremo a ricordare chi erano queste due signore. Finora ci si dice che il ghiaccio sulle ali è stato la causa della sciagura in cui hanno perso la vita, assieme ad altre 47 persone. Qualcuno, però, come il «Times», ha cominciato a riportare il “mistero” di alcune circostanze dell’incidente, avvenuto con inspiegabile - per ora - subitaneità.

Una volta saputo chi sono le vittime, il profilo delle due donne più note ci pone subito qualche domanda sui dettagli del disastro, essendoci ormai abituati a notare troppi casi di prematura scomparsa legati alle vicende della Guerra Infinita.

Una delle due figure chiave è quella di Beverly Eckert. Suo marito era morto nel mega-autoattentato alle Torri gemelle. Per i familiari di ciascuna delle vittime dell’11/9, l’amministrazione Bush-Cheney non aveva badato a spese, arrivando a stanziare quasi 1,8 milioni di dollari per ogni caduto. In tutto, la compensazione a beneficio dei familiari delle vittime superava i 4 miliardi di dollari. C’era però una condizione. Per ottenere la somma sull’unghia, le famiglie dovevano esplicitamente rinunciare a perseguire qualsiasi ente americano (dal governo sino alle compagnie aeree). Lo U.S.A. Patriot Act bloccò per legge anche le possibili cause intentate nei confronti di aziende di sicurezza estere. I familiari delle vittime in stragrande maggioranza accettarono. Questo ‘bailout del silenzio’ risparmiò molte rogne alla premiata ditta Bush-Cheney.

Beverly Eckert invece si rifiutò di rinunciare alla ricerca della verità. Unendosi alle «Voci dell’11 settembre», disse a chiare lettere che non barattava il suo mutismo con i dollari del governo: «Il mio silenzio non si compra». Con quel pervicace impegno che abbiamo conosciuto in tanti casi in cui le madri e le mogli delle vittime hanno impedito che il potere evitasse di fare i conti con le sue responsabilità (quel genere di implacabile insistenza che abbiamo apprezzato ad esempio nelle madri di Plaza de Mayo nell’Argentina dei desaparecidos), anche la signora Eckert era diventata un’attivista energica impegnata in una causa difficile: la riapertura delle indagini sull’11/9. Con altri componenti del “Family Steering Committee” a suo tempo aveva redatto una lista di 100 domande da presentare alla Commissione sull’11/9. Insabbiate.

Essendo ovviamente insoddisfatta di quanto era uscito da quel porto delle nebbie, per smuovere le acque puntava molto in alto, a Washington. Solo una settimana prima di morire aveva ricevuto udienza dal presidente Obama per proporgli l’istituzione di una commissione federale, con poteri più penetranti sui testimoni da coinvolgere, a partire da Bush e Cheney.

Il movimento della Eckert premeva affinché non ci fosse nessuna remora per citare in una corte l’ex presidente, il suo potente vicepresidente, nonché tutti i massimi responsabili degli apparati d’intelligence e della sicurezza nazionale. La sua battaglia non si limitava a questo. Era sua anche la richiesta di declassificare quei documenti che sarebbero stati in grado di fornire alcuni definitivi chiarimenti sui fatti. L’impegno legale di Beverly Eckert spaziava fino alla contestazione dell’irregolarità che inficiava i tribunali speciali di matrice militare, quelle commissioni che portavano avanti l’abominio dei processi senza ‘habeas corpus’ a carico dei presunti terroristi, non solo quelli di Guantanamo. Sebbene il potere avesse sinora opposto resistenze legali efficaci rispetto alla sua azione, l’impegno di Beverly riusciva ad avere ancora un certo rilievo mediatico.

Interessante anche il profilo dell’altra vittima eccellente dell’incidente aereo. Si tratta di Alison Des Forges. Era un’eminente consulente del Tribunale Internazionale dell’O.N.U. che ha in carico i processi contro le autorità imputate dei genocidi dell’Africa centromeridionale, in Ruanda, Burundi e Congo. Profonda conoscitrice della storia dell’area dei Grandi Laghi africani, fin da subito fu capace di attirare i media e le istituzioni a livello internazionale affinché considerassero l’immane strage africana. Le sue deposizioni giurate furono molto rilevanti in occasione di decine di processi per genocidio presso alcune corti nazionali. Ma per lei il bersaglio grosso da raggiungere era un’affermazione internazionale del diritto umanitario.

Il suo libro sulla vicenda del Ruanda – il volume di riferimento su quel genocidio - aveva un titolo che, a questo punto, non può far altro che inquietarci ancora di più: “No witness must survive”. Nessun testimone deve sopravvivere. È stato anche il suo epitaffio.

Due donne coraggiose, impegnate contro poteri e complicità molto altolocate, hanno dunque perso la vita per straordinaria coincidenza nella stessa occasione, ossia il primo incidente aereo letale da oltre due anni negli Stati Uniti. Uno scherzo del destino che si è divertito a rallentare o accelerare l’agenda delle due signore, fino a trovare l’occasione giusta.

La causa dichiarata dell’incidente occorso al Dash 8Q-400 della Bombardier, ossia il ghiaccio sulle ali, si sarebbe determinata nonostante i piloti assicurassero – come risulta dalle registrazioni – di aver messo in funzione tutti i dispositivi, che evidentemente non hanno però funzionato.



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